Un Baluardo di accoglienza e socialità.
TESTO di LORENZO SANDANO FOTO di ALBERTO BLASETTI
Non per soldi, non per gloria o per la popolarità. Per amore sì, tanto e dirompente. Anche un po’ per la sete, ma solo di cose buone da bere. Una riflessione che appare ovvia già dopo pochi minuti che si è entrati nel microcosmo della Locanda Mariella, a Calestano. La frazione esatta in realtà è Fragnolo, zolla urbana di passaggio a qualche tornante da Parma non semplicissima da scovare se non esiste un buon motivo per avventurarcisi. Il pretesto migliore lo incarna proprio questa locanda, che in svariati anni di attività ha saputo ergersi ad avamposto per buongustai e cultori del vino convergenti da ogni dove.
Seppur il territorio lasci traspirare sentori di trattorie tipiche o di sapori tradizionali, urge che adoperiate un reset se siete diretti fin qui. Protagonisti, cucina e identità si distaccano da qualsivoglia locale che potrete scovare nel circondario. E non solo qui nei paraggi. Che sia un luogo fuori dal comune, noi lo appuriamo appena affacciati all’esterno, ammirando uno street artist di fama mondiale – Paolo Capezzuoli AKA Zero-T – mentre sta pittando le pa- reti della struttura con un mega murales in omaggio alle passioni dei due titolari. “Commissionare questi graffiti è per noi un modo di lasciare un segno artistico nel tempo” ci spiega subito Mariella Gennari, proprietaria da cui prende nome l’insegna. “Cibo e vino li consumiamo fin troppo rapidamente, mentre speriamo che quest’opera rimanga impressa più a lungo quale lascito di chi siamo”. Paolo modella con volteggi di spray e riflessi cromatici un’intera parete di bottiglie stilizzate alla base dell’ingresso, proprio sotto un cimitero di etichette d’annata piazzate nei vasi come testimonianza delle numerose bevu- te. “Ci piacciono più le bottiglie dei fiori perché hanno bisogno di meno acqua” afferma svelta Mariella, ironizzando sullo scenario disposto tutt’attorno. Che tipa tosta lei. Look garbatamente freak – con t-shirt di Che Guevara indosso – e la battuta sempre in canna di chi ne ha viste e vissute davvero tante. Ci accoglie nell’anticamera di un ristoro che trasuda fascino retrò, porgendoci pane, olio, qualche fetta di salame e scaglie di Parmigiano extra buono. “Prendo tutto, quando possibile, da artigiani locali o piccole realtà di nicchia – dice – anche il pane. Non sarà perfetto, ma lo fa l’ultimo forno serio di zona. Preferisco sostenere il territorio come posso, con questi piccoli gesti. Se poi c’è necessità di qualcosa di più particolare, però, non si disdegnano anche i distributori. L’importante è es- sere coerenti e rispettosi sempre”. L’aperitivo dipana il languore e ben dispone ad ascoltare la storia della Locanda.
ITINERE ENO-PASSIONALE “Tutto è cominciato con miei genitori, Adriana e Virginio Gennari, battezzato Il Vergio per gli amici – racconta Mariella – avevano un’alimentari con le fattezze da vecchia osteria di passaggio nel centro del paese, dove alle stufe si cimentava mia nonna. Il cibo però era solo una piccola parte, infatti, si cucinava quando c’era bisogno. La potevi vedere attraversare la strada con i piatti in mano da recapitare agli avventori. Era più un luogo di ritrovo che dispensava salumi o generi di prima necessità. Un indirizzo che negli anni passati veniva frequentato dai turisti in cerca della frescura degli Appennini o dai frequentatori delle tenute di caccia qui vicino. Un flusso insolito di villeggianti, che al tempo fece compiere ai miei il passo ardito di costruire l’attuale struttura, atta all’accoglienza. Era la metà degli anni ’60 e mio padre mise su da zero questo posto con cinque piccole camere e un angolo bar-tabacchi, piazzandosi ai fornelli da completo autodidatta. A sostenerlo nell’impresa culinaria c’erano le mie due nonne Enrichetta e Luisa detta Gigenna. Io sono cresciuta a contatto con quei profumi e con la “fauna” dell’epoca. Spesso persone anziane che venivano coinvolte attivamente alla manutenzione della pensione – ride – mio padre e mia madre erano gente umile e decisa, trattavano tutti allo stesso modo. Clientela facoltosa o meno, poco contava. Poteva esser incitata ad annaffiare le piante tra una partita a carte e qualche giro di liquori. C’era spesso l’ambulanza parcheggiata fuori perché si prendevano delle sbronze micidiali. Durante quell’atipico boom di turismo, poi andato a scemare, papà si prodigava in piatti tradizionali e organizzava anche banchetti per matrimoni nella sala di sotto, dove ora c’è la cantina. Da giovane io non volevo saperne e andai a Bologna per studiare Storia contemporanea all’università. Diedi tutti gli esami, ma non finii mai perché era un momento brutto in cui vivere quella città. Tra moti rivoltosi e droghe dilaganti, sentii che dovevo scappare e rientrare a casa per star bene e trovare me stessa. Nel mentre era già sbocciata in me la passione per il vino, sommata a quella per i viaggi. Imposi quindi la condizione di occuparmi proprio delle etichette della locanda, senza metter bocca sul lavoro in cucina. Fui la rovina dei miei se ci ripenso oggi. Dopo il diploma da sommelier nel ’86 ero totalmente rapita dal mondo delle guide e dalla voglia quasi compulsiva di assaggiare ogni novità. Nei primi anni ’90 girovagavo per aziende e degustazioni, curiosa e volenterosa di accaparrarmi bottiglie che oggi forse non berrei mai. Proprio a una degustazione di riesling conobbi Guido. Penso sia per questo che non mi van più giù tanto quei vini lì” sghignazza solerte. Guido Cerioni, la sua dolce metà, è l’anima complementare della Locanda. Mentre noi ci apprestiamo ad accomodarci a tavola, lui – con il mood del factotum – sta aiutando Paolo a issare le impalcature per dipingere le facciate del secondo piano. Carattere timido, celato sotto gli occhiali spessi, che si contrappone a una dialettica ipnotica e fluente quando brandisce il calice. Pronto a narrare vita, morte e miracoli di uvaggi, produttori e terroir a lui cari. Paesaggi e viticoltori che, insieme a Mariella, ha frequentato in profondità, viaggiando in lungo e in largo, sulle rotte enologiche, tra Australia, Cile, Patagonia, Sudafrica e Francia. Anche se l’indole professionale di Guido deriva dal mondo della musica, dell’Hi-Fi in particolare con cui smanetta ad alti livelli tutt’ora. In principio il loro rapporto non è stato proprio così semplice. “Mia madre non voleva farmelo frequentare – riprende divertita Mariella – poi lui ha avuto il coraggio di presentarsi in ritardo prenotando per uno, scolandosi da solo una bottiglia intera di whisky per conquistare la fiducia di mio padre. Dopo qualche giorno, me lo sono ritrovato che dormiva nella stanza dell’albergo a tempo indeterminato”.
Photo Credits: Alberto Blasetti
LA VERA SOSTENIBILITÀ Cessati i loro pellegrinaggi all’estero, nel 1999 scelgono di unificare le proprie passioni aprendo un negozio che vende Hi-Fi e vino a Parma: Hi Fi News – Musica da tavola. Un contenitore a dir poco unico nel suo genere, che li mette alla prova facendoli trottare avanti e indietro dalla locanda sino a ritmi insostenibili. “Quando i miei si sono ammalati abbiamo deciso di cedere la parte dedita al vino ai nostri soci per tornare a occuparci dell’attività di famiglia. Maturando però un approccio tutto nostro – approfondisce Mariella – il lavoro della ristorazione deve essere anche un lavoro politico, che si prodiga nel tutelare la qualità della vita di chi lavora. Da ses- santottina nello spirito ho cercato una formula a misura d’uomo che si mostrasse rispettosa per il cliente, ma anche per i dipendenti e per noi stessi”. La squadra, che in realtà è parte integrante della famiglia, è composta da soli tre elementi: Zara, tuttofare dal Marocco; Joyce aiuto-cuoco da Novellara e Kuni Onuma, lo chef giapponese piombato qui direttamente da Yokohama. Il modello che hanno scelto Guido e Mariella è schietto, fondamentalista e imme- diato: solo tre menu degustazione – di mare, terra e tradizione – da ordinare al mo- mento della prenotazione per un massimo di 12/14 coperti. Con l’intento di limitare al massimo gli sprechi; di tutelare ritmi più morbidi nel lavoro e assicurare una cucina fresca ed espressa ogni giorno. Capite ora il grado di sostenibilità utopico che si adotta qui? “La vera svolta l’abbiamo avuta a ridosso del lockdown – argo- menta Guido – ci siamo resi conto che per uscirne sani potevamo o chiudere del tutto o trasformare questo luogo in un circolo. Di fronte alle incognite burocratiche sul cambiare così drasticamente la Locanda, abbiamo preferito la formula corrente. Si cucina e si lavora a misura di essere umano con porzioni predefinite e la spesa fatta in relazione dei prenotati. Anche la brigata ormai è settata su questo sistema e a volte bastano due coperti in più per farli andar via scemi. Fare 12 persone vuol dire trovare una nuova intimità. È l’unico modo per riscoprire i tempi di una vita diversa”
CUCINA GIAP-PARMENSE “Quando mio padre ha smesso di cucinare, si sono alternati diversi cuochi molto bravi, ma spesso troppo fissati sul proprio ego non riuscivano a capire l’essenza di questo posto” argomenta Mariella mentre recapita gli snack sfornati per l’occasio- ne. “Prima Daniele Lunghi, di formazione molto francese; poi Jacopo Malpeli, con una bella mano ma impostato sulla cucina fine dining. Infine, mi sono trovata a smanettare online per pescare un cuoco di nome Paco Zanobini, che dall’ex-Osteria del Teatro era finito a lavorare in India. Paco è stato un punto di riferimento per noi sino alla sua scelta di provare un percorso individuale, ma proprio grazie a lui abbiamo conosciuto Kuni”. Un intreccio fortuito e un po’ magico di contaminazioni e allineamenti umani, che ci concede portate pregne di maestria e talento. Al seguito dello start di Focaccia con patacotto (prosciutto cotto di Patanegra) e la Giapponiera (giardiniera all’orientale) atterrano antipasti da capogiro: Capasanta arrostita al millimetro in un persistente brodo simil-dashi e un piedistallo di tenera melanzana; Funghi porcini locali in tempura con una pungente salsa verde e gambuccio di prosciutto di Langhirano; o ancora una supersonica Melanzana fondente drappeggiata con crema di Parmigiano Reggiano e crumble di pomodoro dallo sconvolgente acuto mediterraneo. Per connetterci meglio alla mentalità di Kuni basta interrogarlo sul motivo che l’ha portato a fermarsi qui a Fragnolo. La sua pronta risposta? “Vino, campagna, perso- ne… e ancora il vino”. Lo chef del Sol Levante è di poche parole, ma ne assesta più in scioltezza quando degusta qualche etichetta stappata da Guido per l’occasione. Salta fuori che il suo background si articola tra una facoltà di architettura in Giappone e una manovalanza in cucina già da diciassettenne, per poi ritrovarsi a lavorare in diversi ristori e trattorie locali anche di cucina italiana. Brilla in lui l’amore per quella timbrica di piatti e si lancia alla scoperta di mezzo Stivale, maturando ga- vette e un passaporto gastro-culturale super ferrato sulle ricette regionali. Qualche intoppo dovuto al permesso di soggiorno rallenta il suo tragitto, fino al tramite con Zanobini che lo scorta nel ventre familiare di Mariella & Co. “Qui la dimensione è come in paradiso – aggiunge Kuni – vivo in mezzo ai boschi, in una torre che era la casa della zia di Mariella, Marisa” afferma indicando una stradina in salita che s’inoltra tra gli alberi. “Per me è un contesto stupendo, molto meglio della città. La cosa più importante che ho appreso cucinando qui è il rispetto per il cibo e per gli ospiti, quasi spirituale. Inoltre, sono sempre spronato a fare del mio meglio, perché quando mi confronto con i piatti tradizionali sono già ottimi e io non voglio stravolgerli. Posso fare variazioni sugli ingredienti, alleggerire i soffritti, sperimentare cotture o mettere un tocco orientale nei brodi, ma il gusto deve essere fedele all’es- senza della portata e ai prodotti dei fornitori, perché anche loro sono tutti amici”. A enfatizzarne il concetto ci pensa la sequenza di primi. Un atomico Tagliolino al nero – ammiccante alla soba per elasticità e temperatura – con suadente crema di man- dorle, finissime zucchine, coulis di pomodoro e gambero rosso crudo a infondere grassezze iodate. I conturbanti Cappellacci ripieni di caprino liquido (di una piccola casa- ra autoctona) permeati da un twist emolliente di cacio e pepe. Infine, gli iconici Anolini in brodo di manzo e gallina, ripieni – come liturgia parmense esige – di stracotto, cappello del prete, parmigiano, uovo, sugo d’arrosto e pane tostato. Il colore ambrato della pasta, che rivela evolutive sponde papillari, riaccende il verbo di Kuni sulla manifattura degli impasti. “Per i tagliolini uso una farina grama, perché è importante la consistenza, ma non il sapore” allude alla farina 0. “Per l’anolino e il cappellaccio invece uso un mix di farine integrali e macinate a pietra perché donano più intensità”. Nel mentre Guido ci incanta versandoci – e narrandoci – Champagne di piccoli vignerons; Sancerre affilati; vini della Loira; un mastodontico Fleurie e vertiginose reliquie pescate dal suo terroir prediletto: lo Jura. “La carta dei vini qui a un certo punto ha smesso di esistere – aggiunge rabboccando i calici – con la scusa dell’ampiezza della nostra cantina e dei prezzi moderati piombavano persone che distorcevano la nostra filosofia di vino. Quindi abbiamo scelto di assumere noi stessi il ruolo di una carta parlante, lasciando riporre la fiducia del cliente sul fatto che beviamo e viviamo il vino da oltre 30 anni. Proponiamo sempre bottiglie entro i 30 euro di default. Se mi azzardo a scegliere qualcosa di più costoso, perché noto il contesto giusto, sono sempre il primo a rimarcarlo per tutelare la spesa degli ospiti. Un buon servizio non significa coniugare il verbo servire, ma presume una forma di rispetto e collettività che condiziona l’esperienza a tavola. Alcuni vini possono regalarti una magia, una tensione vi- tale che quando viene condivisa risulta ancora più bella. Avendo trafficato una vita tra l’analogico e il digitale, oggi definisco il nostro lavoro in sala come un approccio da tecnico umanista”.